di Enzo Coccia
In un precedente articolo ho scritto della nascita della pizza napoletana al forno. Adesso vorrei parlare di un’altra pizza napoletana che noi partenopei chiamiamo semplicemente “a’ pizza fritta”. Di fatti già nel 1789, nel vocabolario napoletano – toscano, l’Abbate Ferdinando Galiani scrive la definizione delle varie pizze, come “la pizza a lu furno con l’arecheta e la pizza fritta di cicoli, la pizza ddoce, etc..”.
La pizza fritta napoletana è molto diversa dal panzarotto pugliese. Essa si distingue fondamentalmente per l’impasto, in cui la tecnica tradizionale è la stessa della pizza al forno, mentre in Puglia l’impasto è quello del pane.
Ma la grande differenza sostanziale è però soprattutto di valore antropologico e culturale. Infatti, nel 1807 la città di Napoli contava una dozzina di friggitorie in cui vigeva la differenza con la bottega del pizzaiuolo rispetto alle mansioni degli addetti ai lavori quali il zeppolaiolo/a e il friggitore, cioè colui che era destinato alla cottura. I locali friggitorie preparavano tutto quel cibo il cui costo della materia prima era irrisorio e se vogliamo minimo: verdure fritte (melenzane tagliate a fette, carciofi e zucchine alla julienne, cavolfiore tagliato sottilissimo), palle di riso (riso bollito amalgamato con il solo formaggio pecorino), panzarotti (crocchè di patate ripieni solamente con prezzemolo e pepe), scagliuozzi (polenta fritta dalla forma triangolare), alici piccolissime e bianchetti, pizze fritte (calzoni ripieni) e pasta cresciuta (zeppole, dolci o salate).
La pizza fritta e la zeppola sono diverse tra loro: l’impasto della pizza fritta è più consistente e tenace mentre quello della zeppola, molto idratato, è quasi liquido.
Per la pizza fritta vengono formati dei piccoli panetti messi a lievitare; ciascun panetto viene farcito all’interno e ripiegato su se stesso a forma di mezzaluna, oppure si possono anche utilizzare due panetti messi uno sopra l’altro con la farcitura al centro. La zeppola invece, di forma tondeggiante, una volta lievitata, viene immersa nella padella con la maestria delle mani del pizzaiuolo e semplicemente fritta.
Addirittura, durante le mie ricerche sul fritto nella città di Napoli, ho ritrovato il primo libro di ricette scritto nel 1304 da un autore anonimo presso la Corte Angioina: il Liber de coquina (dal latino Libro di cucina). In un capitolo di questo testo troviamo la ricette dell’odierna zeppola che recita così “Ad crispas accipe farinam albam distemperatam cuna qua calida et fermenta eam cum fermento ut crescat et decoque in sartagine cum oleo bullito et addito melle comede” (traduzione “Per le crispelle prendi farina bianca stemprata con acqua calda e falla lievitare col lievito affinchè cresca e cuoci in padella con olio bollito e aggiunto il miele, mangia”).
Signore e signori, ditemi se questa non può essere considerata Arte del pizzaiuolo napoletano patrimonio dell’Unesco.