di Enzo Coccia
Lunedì sera, giorno di riposo, ne approfitto per rilassarmi e trascorrere un po’ di tempo con la mia famiglia. Questa volta, seduto in poltrona, ho rivisto con mia moglie un film di qualche anno fa.
The terminal, questo il titolo, per chi non l’avesse mai visto, riprende la storia vera e assai singolare di un rifugiato iraniano, Mehran Karimi Nasseri, che fu costretto a vivere per circa diciotto anni nell’aeroporto parigino Charles de Gaulle perché sprovvisto di passaporto. Confinato nella zone d’attente dove sostano i viaggiatori senza documenti, dovette riformulare la propria identità in un luogo che, di fatto, ne causa la perdita e l’annulla.
Aeroporti, stazioni ferroviarie, supermercati, alberghi, fast food, centri commerciali, parchi tematici: Marc Augé li definisce non-lieux, noi li chiamiamo non luoghi. Non identitari, non relazionali, non storici, insomma, apoteosi del non. Spazi dove trascorriamo buona parte delle nostre giornate nel totale anonimato per essere ridotti al numero del nostro documento di riconoscimento o della carta di credito. Siamo circondati da non luoghi e questo mi fa riflettere su come, in riferimento al cibo, seguendo le tendenze degli ultimi decenni, la standardizzazione stia diventando l’unica unità di misura.
Che ne dite di quelle macchine che con un paio di euro rifilano un fumante piatto di spaghetti o un secondo con verdure? E di quelle che propongono pseudo-caffè, cappuccini e altre bevande? Ma il vero “MOSTRO” l’ho incontrato l’anno scorso. Ero in vacanza a Rimini e da lontano l’ho visto, lui, enorme, rosso fuoco (voleva forse ricordare le fiamme del forno?), con davanti una ventina di persone in fila, un distributore automatico della pizza, capace di impastare, formare, condire e cuocere un disco di pasta. Due minuti e mezzo et voilà una bella margherita.
Che mortificazione! La pizza, con le sue profonde radici storico-socio-culturali, specchio del territorio, prodotto altamente artigianale, tradizione in ogni sua alveolatura, sottratta alla bottega del pizzaiuolo e rinchiusa in uno scatolone tipo un gigantesco frigorifero American style che di italiano non ha neanche il nome: Let’s pizza.
Prodotte in serie, tutte uguali, perfettamente rotonde, con la stessa quantità di ingredienti e persino un’identica colorazione del cornicione. Quelle le chiamerei non-pizze. Mi chiedo che fine hanno fatto la manualità dell’artigiano, quell’insieme di gesti tramandati di padre in figlio che incantano chi guarda, l’essere accolti e il chiacchierare con il “padrone di casa”, il riunirsi intorno a un tavolo, raccontando e condividendo le proprie esperienze?
Sempre più spesso si mangia fuori casa e i ragazzi, in particolar modo, ricorrono al cosiddetto junk food; a ritmo di Big Mac e a colpi di marketing l’obesità è in costante aumento. L’eccesso di peso e i fast food camminano a braccetto, lo ha rivelato una recente ricerca pubblicata sul Bulletin of the World Health Organization. Non solo è aumentato il numero di persone in sovrappeso, ma si è evidenziato anche che il frequente ricorso ai pasti veloci è una conseguenza della crescente diffusione sul territorio di queste forme di ristorazione.
Per fortuna si stanno riscoprendo cibi sani, consumati in luoghi e serviti da uomini, spero che nei prossimi anni si vada sempre più controcorrente perché tutto il resto è Nulla…