di Lina Malafronte
E’ la “riccia” più amata dai napoletani, tutta curve, soda e carnosa, ammalianti la sua dolcezza e il suo profumo. Non stiamo parlando di una donna, ma di una prelibatezza squisitamente campana come campano è il suo nome: ʼa papaccell (papaccelle).
Fresca, arrostita, cotta in padella, al forno o imbottita, sono tanti e vari i modi in cui la si può consumare. Che sia rosso, giallo o verde, questo peperone schiacciato, con le bacche piccole e costolute, è uno di quegli ortaggi che si presta bene alla fantasia di chi è ai fornelli mettendo d’accordo un po’ tutti i gusti.
Una preziosità rara, e per questo protetta come presidio Slow Food, che ama stare al sole ed è figlia della stagione estiva, la papaccella colpisce gli occhi e la gola con un tripudio di colori e di vitamine. Ancora pochi mesi e dalla terra dei “Papaccio” all’ombra del Vesuvio questi piccoli frutti animeranno le bancarelle dei nostri mercati fino ai primi freddi, quando conservati sottaceto trascorreranno tutto l’inverno. Un procedimento antico che ci riporta al tempo in cui agli orti erano affiancate le masserie dove si produceva l’aceto e il ciutunaro, così era chiamato chi preparava le conserve, armato di rancelloni, grandi botti in legno, immergeva questo e altri prodotti nell’agro condimento.
Adottata dal nuovo mondo, non c’è tavola che le resista: se immancabilmente la sera della vigilia di Natale trionfa nella napoletanissima insalata di rinforzo, Eduardo De Filippo raccontava di mangiarla con “na scurzetell’ ʼe pane r’ ʼo juorno primmo”. Non con il pane ma sulla pizza, Enzo Coccia la propone ad accompagnare salsiccia e provola, entrambe di bufala, e una grattata di pecorino di laticauda.