di Enzo Coccia
“Pronto, che c’è da mangiare per cena?”. La domanda è sempre la stessa anche se viene formulata da tre voci differenti e ottiene tre diverse risposte: “pasta al sugo“, “pomodori e mozzarella”, “minestra maritata”. Tra le tre coppie di interlocutori al telefono ci sono oltre mille chilometri di distanza e più di un’ora di volo, ma il solo pensiero di un buon piatto da gustare riduce la distanza Monaco-Napoli.
Cari amici del web voglio condividere con voi una riflessione sulla nostra tradizione culinaria, sull’Italia, su Napoli e su quanto sia importante per noi il cibo.
Un tedesco, un cinese, un inglese può accontentarsi del panino mangiato da McDonald’s o del caffè preso da Starbucks, ma un italiano – e un napoletano a maggior ragione – no, assolutamente no! Meglio cenare a casa, anche se a casa si torna alle 11 di sera o a mezzanotte!
E’ il 21 gennaio scorso, sono le nove di sera e sono al Terminal 2 dell’aeroporto di Monaco, gate 30. Sto tornando a Napoli da Kiev dopo una settimana di lavoro. Il mio aereo fa scalo a Monaco e così trascorro un po’ di tempo nell’aeroporto tedesco e rifletto su questi luoghi o, meglio, “non-luoghi” come li ha definiti l’antropologo Marc Augé e sulla loro omologazione secondo le teorie del sociologo George Ritzer: tutti uguali, gli stessi fast-food, gli stessi brand, gli stessi gate, insomma tutto uguale ovunque, senza identità.
Sarà l’ora tarda, sarà che sono stanco, sarà che non vedo l’ora di tornare a casa mia, ma mal sopporto l’attesa. E così mi avvio velocemente al gate 30, quello dell’imbarco del volo con direzione Napoli. Non ho voglia di lavorare, né di leggere: sono stanco e me ne sto pigramente seduto ad origliare i miei concittadini in attesa di tornare a casa, come me. Ascoltare un accento familiare mi rincuora e mi fa sentire già un po’ a casa.
Davanti a me c’è il classico manager: giacca e cravatta con due telefonini tra le mani. Sta parlando con il capo e gli racconta la riunione di lavoro a Bruxelles. Dopo poco gli squilla l’altro telefono: è la moglie, parlano dei figli piccoli, si informa se stanno già dormendo e, prima di chiudere la conversazione, chiede: “Che hai preparato per cena?”. Capisco che mangerà mozzarella e pomodoro.
Alla mia sinistra ho una signora sui 35 anni: computer sulle ginocchia per lavorare mentre parla al telefono con il marito. Anche lei chiede dei figli e poi fa la stessa domanda: “Cosa c’è da mangiare quando arrivo a Napoli? Oggi a pranzo ho preso del pollo con i miei colleghi stranieri in un ristorante Tailandese… tu che mi prepari?”. Dal prosieguo della telefonata capisco che si riscalderà una pasta al sugo, una volta rincasata.
A questo punto telefono pure io a casa mia. Mia moglie mi parla dei ragazzi, io le racconto del freddo in Ucraina, lei ribatte dicendomi che a Napoli, come al solito c’è stato il sole e poi concludo: “Cosa mi hai preparato per cena?” Risponde: “Una minestra maritata, ma con il pollo leggera”. Chiudo la telefonata, sorrido e mi torna pure il buonumore!
Penso che il napoletano ovunque si trovi desideri mangiare “bene” e che non esista al mondo un popolo tanto legato al cibo, quanto alla famiglia. Insomma il cibo è un pò la nostra identità, noi napoletani siamo una “comunità del cibo”. Siete d’accordo con me o no?