di Enzo Coccia
Ve la ricordate la bella donna Sofia che dava la voce “mangiate oggi e pagate tra otto giorni”? Era il secondo dopoguerra e nelle sequenze in bianco e nero davanti al basso, su un banchetto, con movenze ammalianti, la prosperosa pizzaiola infarinava e stendeva dischi di pasta che, tuffati nel pentolone di olio bollente, facevano la felicità dei passanti. Pochi soldi e l’oro di Napoli, ne prendo in prestito il titolo, non me ne voglia De Sica, venduto a ogge a otto, quando la miseria la faceva da padrona e la pizza, quella classica, cotta nel forno a legna e condita con pomodoro e mozzarella, era diventata un lusso, sfamava il popolo napoletano.
Figlia della zeppola, quella raccontata per la prima volta nel lontano Cinquecento da Giovan Battista del Tufo, che l’ambulante porgeva “co lo mele”. Infilate in ramoscelli, a mostrarle un testo di De Boucard, le dolci ciambelle inzuccherate, delizia e spasso della nobilissima città di Napoli, ben presto cedettero il passo alle versioni salate e più sazianti. Complice il genio della fame, dalle bianche frittelle col buco si arrivò a quelle che in vernacolo si chiamano pizzelle ‘e pasta crisciuta.
Alghe di mare, acciughe salate, baccalà o cicenielli ad arricchirle, da mangiare rigorosamente appena fritte, croccanti e bollenti, queste palline di acqua, farina, lievito e sale, fissate dalla penna del cavalier Ippolito Cavalcanti, facevano coppia con i crocché di patate, gli scagliuozzi, il cartoccio di fravaglia, il brodo di polpo e altre specialità che i vicoli della città degli scugnizzi e dei lazzari offrivano.
Mbottunate d’alice, come il duca di Buonvicino suggerì nel trattato “Cucina teorico-pratica”, la pizza fritta, o più genericamente ‘a zeppulella, nel 1847 era farcita con pesce azzurro scaldato in abbondanza, senza spine, marinato con olio, sale e pepe. Due strati di pasta schiacciati tutt’intorno che uscivano dalla friggitoria dello zeppolajuolo.
La nascita delle corporazioni di produttori, che fissarono tecniche specifiche per la produzione non solo di quella pizza dorata e scrocchiante ma di tutti i prodotti della frittura, impose un’attenzione particolare alla formazione delle nuove matricole. Ancora bambini, i futuri maestri del fritto andavano a bottega per imparare tutti i segreti del mestiere.
Varie erano le tipologie di pizze fritte e zeppole: da quelle di pasta cresciuta alle montanare, che differivano dalle prime per consistenza d’impasto, dalla pizza fritta, nota anche come piscitielli, mezza luna o battilocchio alla padella o brioche, fatte queste ultime con una base di impasto farcito e ricoperto con un ulteriore disco di pasta.
Davanti a una tale varietà una precisazione terminologica s’impone. L’originaria voce zeppola, presa in prestito dalla gens partenopea anche per quella rustica, per la quale sarebbe più corretto parlare di pasta cresciuta, indicherebbe solo la leccornia propriamente dolce. Non importa il nome, non la forma né tantomeno se farcite o condite dopo la cottura, a queste ghiottonerie è impossibile resistere!